In Repubblica Centrafricana le elezioni presidenziali e legislative dello scorso 27 dicembre, tanto attese al fine di suggellare l’Accordo per la pace e la riconciliazione (APPR) firmato a Khartoum quasi 2 anni fa tra autorità e 14 gruppi armati, hanno invece dato l’avvio ad un’escalation di violenze in tutto il Paese.
Dopo che l’ex presidente François Bozizé, estromesso nel 2013 da un colpo di Stato, è stato escluso dalla corsa alla presidenza dalla Corte Costituzionale lo scorso 3 dicembre la tensione è aumentata. Su di lui pesa infatti un mandato di arresto internazionale per omicidi, sequestri di persona, detenzioni arbitrarie e torture.
Si temevano ripercussioni da questo coraggioso verdetto istituzionale. Che non si sono fatte attendere. I sei più potenti gruppi armati, in lotta per il controllo del territorio, si riuniscono a metà dicembre nella Coalizione dei patrioti per il cambiamento (Cpc), firmando la dichiarazione di Kamba Kota, una località al nord-ovest del Centrafrica, con l’intento di destabilizzare il Paese per chiedere il rinvio delle elezioni e l’apertura di una concertazione tra le forze vive della nazione così da appianare le cose prima del voto. Governo, Minusca e Comunità Internazionale rifiutano categoricamente questa via e il processo elettorale va avanti. Intanto si moltiplicano i focolai di insicurezza, a partire da alcune cittadine sull’asse strategico Bangui Garoua-Mboulay, su cui gravita il passaggio delle merci di approvvigionamento della capitale centrafricana. Che si estendono poi fino a toccare le principali città del Paese, costringendo 84.000 centrafricani a fuggire in Cameroun, Repubblica Democratica del Congo, Congo Brazzaville, Ciad e 200.000 sfollati a cercare rifugio nella foresta o presso Chiese e conventi.
Si arriva così al voto del 27 dicembre. Tutto si svolge regolarmente a Bangui e dintorni, tuttavia più della metà del Paese non partecipa al voto. In alcuni territori si vota, ma poi i gruppi armati si impossessano delle urne e le bruciano, i processi verbali non sono controfirmati dai rappresentanti dei candidati, le urne sono stoccate nei locali della Minusca o delle autorità amministrative in attesa dello spoglio delle schede il giorno seguente. La validità dei risultati lascia molto a desiderare. Su 1,8 milioni di iscritti votano 695.010 centrafricani, cioè il 37%. Il 4 gennaio sono proclamati i risultati provvisori. Il presidente uscente Touadéra vince al primo turno con il 53,92% dei voti.
Undici dei sedici candidati alle presidenziali rifiutano i risultati e presentano ricorso alla Corte Costituzionale per irregolarità, mancanza di trasparenza e intere zone private di seggi, 29 sottoprefetture su 71, chiedono l’annullamento del voto. Intanto la ribellione arriva alle porte di Bangui. Il 13 gennaio un doppio attacco simultaneo, sui fronti nord e sud, rispettivamente a 12 e 9 chilometri dal centro città, paralizza la capitale, provocando uno spostamento massiccio della popolazione alla ricerca di luoghi più sicuri. L’attacco è tuttavia ben presto neutralizzato dopo circa tre ore di combattimenti, grazie al contrattacco delle forze armate nazionali (Faca), delle forze della missione Onu (Minusca) e delle truppe russe e francesi. Da questo momento, il ritmo della vita cambia vertiginosamente nella capitale, nonostante il Governo dichiari che la situazione è sotto controllo. Un coprifuoco è proclamato dalle 18 alle 5 di mattina, a cui segue uno stato di emergenza di 15 giorni, prolungati alla sua scadenza a 6 mesi dall’Assemblea Nazionale per, a detta delle autorità, tracciare i ribelli e mettere fine a decenni di conflitto. “Cosa inquietante, come afferma Gervais Lakosso, coordinatore del Gruppo di lavoro della società civile sulla crisi centrafricana (Gtsc), che dimostra che la crisi è ben lungi dal finire”.
Il 19 gennaio la Corte Costituzionale convalida la vittoria del capo dello stato uscente Faustin Archange Touadéra a un secondo mandato con 318.626 voti (53,16%), davanti al suo principale avversario, Anicet Georges Dologuelé, che ne ha ottenuti 130.017 (21,69%). Anche se a votare, è stato solo un terzo degli aventi diritto.
Intanto nelle province i combattimenti continuano tra i gruppi armati da una parte e le FACA ed i suoi alleati dall’altra per riprendere il controllo delle principali città occupate. Con una nuova strategia militare. Le FACA, che erano per lo più sulla difensiva all’inizio della ribellione, cercano ora di attaccare le posizioni dei ribelli per cacciarli dalle città occupate.
In questo momento l’asse strategico Bangui Garoua-Mboulay è passato sotto il controllo delle forze regolari centrafricani e molti veicoli, che trasportano alimenti e prodotti di prima necessità, bloccati per quasi due mesi al confine con il Cameroun, hanno ripreso a circolare e rifornire la capitale Bangui.
E’ in un tale contesto che i risultati definitivi del primo turno delle elezioni legislative sono proclamati dalla Corte Costituzionale. Degli oltre 1.500 candidati in lizza per 140 poltrone, soltanto 22 sono dichiarati eletti al primo turno, a causa dell’insicurezza, ma anche di una serie di irregolarità e altre violazioni del Codice elettorale che hanno obbligato la Corte Costituzionale ad annullare o correggere certi risultati.
Un Decreto firmato dal Presidente della Repubblica lo scorso 12 febbraio convoca il corpo elettorale per il secondo turno delle legislative e per il primo turno delle legislative parziali per il 14 marzo 2021.
Dopo Bouar, Bosseptelé, Bossembelé e molte altre città, le forze armate convenzionali sono riuscite a riprendere il controllo della località mineraria di Ndassima, a 18 chilometri da Bambari, considerata scandalo geologico per la vastità di miniere d’oro, al centro di conflitti che oltrepassano i confini della Repubblica Centrafricana.
Se il Paese da decenni è vittima di tensioni e di una crisi interminabile, è su questo versante innanzitutto che vanno ricercate le sue cause profonde.